Come probabilmente sapete, l’apostolo Paolo prima di convertirsi a Cristo era stato un pio e zelante fariseo. Uno fiero di seguire tutti quei precetti religiosi che rendevano sicuri di non aver bisogno di null’altro per la propria salvezza.
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Però dopo la conversione giudica inutile, anzi dannosa, quel tipo di religiosità. Scrive allora ai cristiani che sono a Filippi questo brano (Filippi 3:7-14), che leggerò e commenterò un versetto alla volta.
7 Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo.
Proprio quella vita religiosa e spirituale precedente, che prima considerava un guadagno, adesso diviene un danno, una perdita. E ciò non si limita ad una o ad un’altra pratica farisaica particolare, ma in generale alla mentalità religiosa senza Cristo, infatti prosegue dicendo:
8 Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo
Ogni cosa che offuschi la conoscenza del Cristo, del suo essere il Signore e il Salvatore, la giudica un danno, anzi quelle pratiche farisaiche sono spazzatura o letteralmente letame. Tutte le teologie se non vanno al Cristo, in realtà, pur ritenute rispettabilissime e importanti e salvifiche, sono ritenute un danno ed esecrabili. E il solo guadagno è dunque in Cristo, non in altro.
Paolo espone con forza questo astio verso la religiosità, probabilmente per il fatto che i filippesi erano tentati, come altri cristiani del tempo, da una predicazione sincretista che mescola fariseismo e Cristo oppure gnosticismo e Cristo.
Però, a ben pensarci, come spesso ripeto, il fariseismo, inteso come quel sentirsi religiosi e dunque a posto definitivamente con il Signore, è una tentazione ricorrente dell’essere umano. Perché si vuole sicurezza. La sicurezza di sentirsi giusti, di sentirsi irreprensibili dinnanzi al Signore. E questa è una tentazione umana. Ecco perché Paolo aggiunge:
9 e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede.
Affidarsi a Cristo significa, quindi, rinunciare a basare il proprio rapporto con Dio e con il mondo, sulla propria giustizia, sulla auto-giustizia. Mentre quella giustizia che viene da Dio e non da noi stessi, significa affidare tutto noi stessi alla sua grazia. Fidarsi di Gesù Cristo, cioè, che avremo salvezza,e non in cose che noi abbiamo fatto e che sono d’altronde vanti illusori. È in un certo senso la fede una forma di insicurezza.
Troviamo qui dunque una critica alla religiosità, come spesso si presenta nel mondo. Però nel nostro mondo siamo abituati spesso, per buona educazione o per ideologia, a dire che tutte le religioni sono rispettabili e paragonabili e in fondo equivalenti. Certamente tutte le persone e quindi tutte le religioni possono avere qualcosa di buono, è ovvio, come anche che c’è sempre da imparare. Ma quando mi chiedono: “lei è religioso?” io quasi nego e dico “credo in Gesù Cristo”.
Infatti, i molto religiosi sono ad esempio quelli che uccidono di botte una ragazza perché una ciocca di capelli gli è sfuggita dal velo, sono quelli che ritengono di avere diritto ad instaurare una versione mitica della loro nazione anche se quella terra è abitata da altri, sono quelli che benedicevano ieri le baionette e oggi i razzi, dunque altro che fariseismo abbiamo oggi, e inoltre, guardate nel mondo che si dice secolarizzato, che si vanta di essere lontano dalla religione, a quanto c’è di moralismo, cioè di atteggiamento che definisce una linea di condotta giusta, indipendentemente dalla realtà delle cose, solo per motivi ideologici. E molte persone poi che sfuggono dalle loro responsabilità, per guardare a piccoli aspetti irrilevanti, per dire “io non ho fatto niente”: appunto è lì il problema: per non rischiare, non hai fatto niente. Quanta spazzatura c’è, in confronto al Cristo.
C’è dunque in questa parte della lettera una netta rinuncia al passato da parte dell’apostolo, che invita tutti a togliersi di dosso i cascami delle false ideologie o religioni del passato. Il problema diviene allora cosa ci dice del presente e del futuro. Ed ecco che aggiunge:
10 Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, 11 per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti.
Tutto questo, questo abbandonare la religiosità precedente (analogo alle due parabole che abbiamo letto) è per conoscere Cristo, che spiega l’apostolo aggiungendo espressioni, come quelle della comunione con le sue sofferenze e del conformarsi alla sua morte, che non sono facili da comprendere, ma che ci parlano di una conoscenza profonda, completa, non una conoscenza solo teorica o superficiale, ma un vivere la vita in connessione a Gesù Cristo, fino alla resurrezione.
“In qualche modo”, dice l’apostolo, che confessa così la sua ignoranza, come la nostra per altro, nei confronti delle modalità della resurrezione e della vita eterna. C’è però il vedere la propria vicenda umana alla luce delle esperienze umane di Gesù Cristo, per giungere infine come Lui alla resurrezione.
non ancora ottenuto
Paolo parla di un cammino che dura tutta la vita, ma sa che i credenti possono equivocare e quindi si affretta ad avvertirli dicendo:
12 Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo.
Nessuno giunge alla perfezione, dunque. La conversione al Cristo è un processo che si dipana lungo tutta la vita, tutta la vita è un tendere a quella mèta. E si considerino i termini usati dall’apostolo: “afferrato” e “cercare di afferrare”. Cioè anche la spinta verso Cristo qui descritta, nasce da Cristo che si fa conoscere e quindi invita ad andare verso di Lui. Quindi non solo non c’è perfezione attuale, ma anche non c’è un vanto per aver iniziato questo cammino.
Probabilmente a Filippi c’era chi predicava invece una perfezione immediata o raggiungibile, data dal battesimo inteso come atto magico-sacramentale, allora l’apostolo ritorna su questo punto di nuovo, scrivendo:
13 Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, 14 corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù. (Filippesi 3:7-14)
Ecco dunque che la vita cristiana è illustrata con l’esempio degli atleti che corrono nello stadio, tutti protesi in avanti, per andare più veloci, pensando solo ad arrivare a vincere il premio. La vita cristiana, dunque, procede sia pure non di corsa, ma dimenticando le cose che erano un danno, che appesantivano inutilmente le giornate, quasi leggera, ma determinata verso la mèta.
E la mèta è la conoscenza di Cristo e attraverso questa sia ha un premio: la vita eterna. Premio non da intendersi, ovviamente, come qualcosa di guadagnato, ma tutto quello scritto prima come un dono di Gesù Cristo.
Ecco che l’esistenza ha un quadro di riferimento chiaro e persegue la conoscenza del Cristo e non finte o fuorvianti religiosità. Ha un obiettivo preciso e nel percorso della nostra vita, giorno per giorno, c’è da scoprire il Cristo e noi stessi in rapporto a Lui e il mondo che ci circonda. Vedremo allora la sua misericordia e la sua vicinanza e comprenderemo sempre meglio il suo amore.
Questa scoperta giornaliera, dà la gioia di sapere che la vita è tutta pienamente degna di essere vissuta. Amen
